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CAPIRE ED ELABORARE LE ESPERIENZE TRAUMATICHE

“È inutile ricoprire di terra le ferite psicologiche, bisogna farle respirare affinché possano cicatrizzare.” Isabel Allende

Cos’è e cosa non è il trauma

Prima di capire che cosa succede nella mente delle persone traumatizzate, è importante pulire il campo della definizione. Differenziamo quindi il trauma dalle esperienze stressanti. Un lutto può rappresentare un evento traumatico in molti casi, ma non tutti i lutti generano automaticamente dei traumi.

L’impatto di un evento potenzialmente traumatico è soggettivo e dipende dalle caratteristiche del proprio funzionamento emotivo e cognitivo e dalla qualità delle nostre relazioni; quindi, dipende dalle risorse personali che sostengono il senso di sicurezza ed efficacia nel fronteggiare quel dato evento.

Se i fattori protettivi sono sufficientemente forti da sostenere l’elaborazione di quell’esperienza, questa non diventerà traumatica. L’evento diventa traumatico nel momento in cui la persona sperimenta sensazioni come:

  • panico, terrore, paura di morire;
  • impotenza;
  • solitudine, profondo isolamento.

In generale, possiamo definire il trauma come un’esperienza soverchiante per la persona, invasa da un sentimento di minaccia per la propria vita, esposto ad una situazione lesiva per la propria incolumità o quella di qualcun altro da cui dipende emotivamente. Tale esperienza è caratterizzata dall’impossibilità di reagire o sottrarsi, o dal fallimento delle strategie per farvi fronte.

Di quali esperienze stiamo parlando?

Gli eventi che possono scatenare un trauma psicologico non sono solamente incidenti drammatici o eventi naturali estremi. Nella maggior parte dei casi, i traumi sono più difficili da riconoscere proprio perché si inseriscono nelle relazioni quotidiane “normali” con persone significative. Ad esempio, aver vissuto con un genitore che era contemporaneamente fonte di paura e di protezione, trascurante o impotente, oppure situazioni familiari che esponevano il bambino sistematicamente a vissuti di impotenza e solitudine. Queste esperienze influenzano il senso di sicurezza esistenziale della persona, l’autostima e il senso di efficacia personale.

Quando la soluzione diventa il problema

Quando ci troviamo a dover fronteggiare un evento minaccioso per la nostra integrità psicofisica, sono molteplici le strategie che la nostra storia evolutiva come mammiferi ci mette a disposizione. A fronte di un pericolo, chiediamo aiuto, lottiamo per neutralizzarlo, cerchiamo di fuggire (iperattivazione del sistema neuroendocrino), oppure ci mettiamo in stand-by in attesa di un momento in cui sarà di nuovo possibile agire (ipoattivazione del sistema neuroendocrino). Queste reazioni sono prima di tutto corporee-emotive: sono automatiche, fanno parte del nostro bagaglio evolutivo e prescindono dalla presa di decisione.

Scampato il pericolo, il nostro sistema di allarme può tornare alla normalità. Se l’esperienza non è stata sufficientemente elaborata, oppure se la minaccia è prolungata nel tempo e le reazioni a questa non sono state sufficienti per farci sentire al sicuro, c’è il rischio che la reazione all’evento stressante rimanga cronicamente attiva anche dopo la cessazione della minaccia. Così è possibile trovarsi, anche a distanza di anni e senza che vi sia la consapevolezza rispetto all’impatto traumatico di un dato evento vissuto magari nell’infanzia, ad esperire sintomi associati alle reazioni di attacco, fuga, o congelamento:

  • ansia in assenza di cause apparenti, impotenza;
  • preoccupazioni sproporzionate rispetto al contesto attuale;
  • tristezza, sconforto, disperazione;
  • ritiro, evitamento;
  • emotività soverchiante;
  • apatia;
  • somatizzazione.

Vivere nel presente

Come facciamo a disattivare le manovre difensive che in passato ci hanno assicurato la sopravvivenza, ma che oggi mettono i bastoni tra le ruote alla nostra serenità?

Le memorie traumatiche sono, per definizione, non integrate: significa che l’evento è stato immagazzinato in modo frammentato e incompleto nel nostro archivio mentale. Questo accade perché, in situazioni di pericolo, il nostro cervello attiva una sorta di “protocollo d’emergenza” scegliendo la via più veloce per permettere una pronta reazione; ma, in questo modo, bypassa le aree cerebrali deputate alla comprensione, che rimangono per così dire escluse dal processo, che non può procedere nell’elaborazione. Quello che rimane può essere una grande attivazione corporea ed emotiva oppure una costante disattivazione, anche a fronte di una comprensione cognitiva dell’esperienza traumatica.

Stiamo dicendo che l’impronta delle esperienze traumatiche rimane impressa nel corpo e nelle reazioni somatiche, prima ancora che nella mente ed è anche per questo che capire non basta. Per lenire l’impatto del trauma è necessario che la cura parli il medesimo linguaggio del trauma stesso, quindi un linguaggio emotivo e corporeo, con l’obiettivo di integrare i ricordi frammentati, elaborarli, quindi attribuire loro lo status di passato.

L’Istituto Superiore di Sanità indica che il trattamento del trauma si disponga essenzialmente su due livelli: quello farmacologico e quello psicoterapeutico. In particolare, le premesse sopra esposte chiariscono il successo dei modelli psicoterapeutici basati sul corpo e sulle emozioni nella cura del trauma, come l’EMDR e la Terapia Sensomotoria. L’EMDR, (dall’inglese Eye Movement Desensitization and Reprocessing, Desensibilizzazione e rielaborazione attraverso i movimenti oculari) è un approccio utilizzato appositamente per il trattamento del trauma e di problematiche legate allo stress, soprattutto allo stress traumatico. L’OMS riconosce la sua efficacia dal 2013 e da allora la mole di ricerche è aumentata esponenzialmente, confermando i risultati della letteratura.

L’EMDR va a lavorare sul ricordo di questi eventi, in modo da rielaborarli e riorganizzarli nella memoria, per far sì che queste esperienze perdano l’intensa componente emotiva associata e che gli apprendimenti disfunzionali dal punto di vista cognitivo acquisiscano un significato maggiormente positivo. Tutto ciò permette di poter usare i “ricordi dolorosi” in modo costruttivo, trasformandoli in una risorsa.

Contatti: Chiara Failoni – Psicologa Clinica
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e-mail: chiarafailoni.psi@gmail.com